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Medaglia d’onore conferita a mio padre, Leonardo Totire

La testimonianza del sacrificio degli Internati Militari Italiani contro l’oppressione nazifascista

di Vito Totire

Il 28 gennaio 2025, alle 10 del mattino, la Prefettura di Bologna ha consegnato la medaglia d’onore conferita agli IMI (Internati Militari Italiani) a 18 persone. Una di queste è mio padre: Leonardo Totire, nato nel 1912.
Egli fu prigioniero in un campo di internamento tedesco di Schulbruecke (Sassonia) dall’ottobre 1943 fino al 13 aprile del 1945, dove giunse dopo la cattura a Lavrio, in Grecia, nel settembre 1943.

Sulla storia degli IMI è stato scritto e ricordato molto (vedi anche “Il lavoro forzato ai tempi di Hitler”, Pascale e Materassi, Editoriale programma, che riporta ampia bibliografia); la storia di mio padre è quella di uno dei 750.000 IMI, di cui 50.000 morirono di fame, freddo e violenze, costretti ai lavori forzati.

Una tragica vicenda umana conseguenza del fascismo italiano alleato con la Germania nazista: si moriva dunque anche per fame, perché Hitler in persona aveva destinato agli IMI una “dieta” più scarsa di quella destinata ai “veri prigionieri di guerra”, mentre gli IMI venivano considerati “badogliani” e traditori, dunque prigionieri di seconda categoria e non erano tutelati dalla Croce rossa; inoltre, dal settembre 1944, essi furono sotto la sorveglianza diretta delle SS. Il regime dietetico deciso da Hitler era ancora più sadico ed omicida per gli internati ebrei.

Mio padre parlava poco di questa sua esperienza, probabilmente per non turbare la sua famiglia, che cresceva serenamente in un paese contadino del Sud (Turi). Ma, a spizzichi e bocconi, qualche episodio, anche raccapricciante, lo riferì.

Testimoniò (e, pertanto, la sua fu una testimonianza diretta dell’Olocausto perpetrato dai nazisti) che nell’imminenza dell’arrivo degli Alleati, i soldati tedeschi davano fuoco alle baracche degli internati ebrei, risparmiando quelle degli IMI da questa aggressione stragista finale.

Sto raccogliendo questi frammenti di memoria “strappati” anche a due suoi compagni di sventura (uno residente a Milano – Franco Martinenghi e uno residente a Crevalcore – Nino Preti), con i quali si cementò una solidissima amicizia durata tutta una vita.

Certo, mio padre e gli IMI non furono partigiani in armi ma catturati in caserma dopo lo “sbandamento” dell’8 settembre 1943; nessuno di loro ebbe la possibilità di scappare in territori che permettessero la necessaria libertà per organizzare forme di resistenza. Resistettero, tuttavia, gli IMI alla campagna di reclutamento condotta dai fascisti della cosiddetta Repubblica di Salò, che utilizzavano come incentivo l’offerta di cibo a chi soffriva letteralmente la fame (come ricorda in una memoria scritta uno dei compagni di prigionia di mio padre). Meglio la fame che dare supporto al nazifascismo, così decisero e fecero tutti gli IMI.

In questo momento mi sento di ringraziare il Presidente della Repubblica per una onorificenza che, senza nessuna retorica, mi commuove per il ricordo di un genitore che, come altri 750.000 italiani prigionieri, ha scelto di stare dalla parte della giustizia e della libertà; mi sento di ringraziare anche perché i rigurgiti di fascismo e di negazionismo nel nostro Paese e nel mondo non si sono mai interrotti e oggi anzi tornano particolarmente ingravescenti.

Mio padre, pur inviato in Grecia (assieme ai suoi commilitoni), fece tutt’altro che “spezzare le reni” al paese invaso; questo lo racconterò, prima che sia troppo tardi, anche perché è pertinente al tema “italiani brava gente”, argomento su cui ci sono state grandi mistificazioni che certamente crollano davanti alle evidenze storiche (basti pensare ai “gas di Mussolini” secondo la eccezionale ricostruzione di Del Boca).

Potremmo dire: italiani brava gente? non tutti, ma neanche nessuno; quando mio padre tornò a casa dalla Germania, contando in parte su mezzi di fortuna, pesava circa 40 kilogrammi, così Nino Preti che peraltro subì un gravissimo infortunio in una fabbrica di gomma tedesca, tuttora esistente; risulta che più di 2000 imprese tedesche utilizzarono il lavoro forzato degli IMI in condizioni disastrose in quanto a misure di prevenzione e sicurezza.

Mio padre per tutta la vita non riuscì a sopportare di vedere un pezzo di pane o un alimento per terra: lo raccoglieva, lo puliva, casomai lo dava da mangiare agli animali o lo usava per concimare gli alberi. Come ho detto mio padre “parlava poco” di quella sua esperienza; mio grave rammarico è quello di non averlo “interrogato” abbastanza ma quanto, sia pure “poco”, abbiamo saputo, è più che sufficiente per ribadire in maniera perentoria: no al nazifascismo in tutte le sue forme, continuiamo a difendere la pace, la fratellanza tra i popoli, la libertà, la giustizia sociale.

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