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La “protesta dei trattori” arriva anche a Turi

Agricoltori e Istituzioni fanno fronte comune. A breve l’incontro con l’assessore regionale all’agricoltura Pentassuglia

Anche gli agricoltori turesi hanno preso parte al presidio realizzato a Rutigliano per cercare di salvare l’intero comparto, succube di una lunga serie di riforme incompiute e, quindi, fallimentari.

In verità, l’adesione è stata piuttosto timida. Giovedì 15 febbraio, a Largo Pozzi, si sono incontrati circa 50 produttori turesi: messe a fuoco le richieste prioritarie, si è stabilito di unirsi alla manifestazione organizzata per il giorno successivo a Rutigliano. Venerdì 16 febbraio, tuttavia, hanno risposto all’appello appena 8 agricoltori turesi. I ben informati attribuiscono la scarsa partecipazione a diatribe interne al gruppo stesso, legate a “questioni politiche”, ritornate in voga in vista dell’appuntamento con le elezioni comunali.

Nel frattempo, proprio nella manifestazione rutiglianese del 16 febbraio, sono state coinvolte le Istituzioni, consapevoli che si potrà sperare di portare a casa un risultato concreto solo se si farà fronte unico con amministratori locali e sindacati, al di là delle appartenenze partitiche.
in queste ore, dunque, i sindaci dei Comuni interessati, tra cui Turi, sono a lavoro per stilare un documento, che faccia sintesi delle istanze degli agricoltori, che dovrebbe essere discusso in settimana con l’assessore regionale all’Agricoltura, Donato Pentassuglia.

Le ragioni della protesta

La cosiddetta “protesta dei trattori”, iniziata in Germania per il taglio ai sussidi al gasolio, è dilagata in tutta Europa e, seppur con un paio di settimane di ritardo, è arrivata anche in Italia, quando si è appreso che l’esenzione Irpef sui redditi dominicali e agrari dei terreni, introdotta nel 2017, non sarebbe stata rinnovata.

Tante le rivendicazioni, variabili in base alla nazione ma anche al singolo movimento che si è costituito spontaneamente nelle ultime settimane. Per fare chiarezza sulle ragioni degli agricoltori turesi abbiamo parlato con Tonio Palmisano, imprenditore agricolo, che distingue il “campo di battaglia” in due fronti: Unione Europea e Italia.

Il filo rosso che unisce il tavolo comunitario e quello nazionale è la necessità di liberarsi dalla morsa della burocrazia e, in parallelo, di attivare più tutele sostanziali, per reggere il contraccolpo di un mercato globalizzato orfano di regole e di una GDO (grande distribuzione organizzata) che impera indisturbata sull’intera filiera.

Le richieste alla Comunità Europea

All’Europa si chiede di arginare la concorrenza sleale: «Nei nostri porti arrivano prodotti da Paesi non comunitari con prezzi all’ingrosso nettamente inferiori, perché hanno costi di manodopera più bassa e criteri qualitativi inferiori. Difatti – spiega Palmisano – possono utilizzare fitofarmaci proibiti in Europa e avere una percentuale di residui dei principi attivi nel frutto molto più alta rispetto ai parametri stringenti che sono imposti agli agricoltori italiani».

Il secondo punto è fermare OGM (organismi geneticamente modificati) e carne sintetica, «spacciati come il nuovo “green”, in contrapposizione all’agricoltura e all’allevamento tradizionale, accusati di essere fonte primaria di inquinamento».

Segue l’esigenza di avere un’etichetta chiara al 100%, «per consentire al consumatore di scegliere cosa mangiare con cognizione di causa», e di abolire le royalties e il blocco commerciale che ne consegue. «Le multinazionali – argomenta Palmisano – fanno la propria fortuna sulle spalle degli agricoltori: si sperimentano nuove cultivar, probabilmente migliori a livello di tenuta e resa, ma, contemporaneamente, si introduce un vincolo di commercializzazione, che genera dei piccoli monopoli. In poche parole, il produttore che decide di coltivare quella particolare varietà, oltre a pagare una “tassa” alla multinazionale proprietaria del brevetto, è costretto a rivolgersi a canali di commercializzazione stabiliti dalla stessa multinazionale, senza possibilità di trattare sul prezzo».

Infine, il tema caldo della PAC (politica agricola comunitaria), uno strumento che riversa sull’agricoltura circa 380 miliardi all’anno: «Il problema sta nei criteri di ripartizione di questi fondi. Attualmente, i contributi vengono ricevuti anche da chi ha terreni incolti; noi, invece, pretendiamo che siano supportati esclusivamente gli agricoltori che producono».

Le richieste all’Italia

Passando alle istanze indirizzate al governo nazionale, al primo posto c’è «l’abolizione dell’Irpef agricola per tutti gli agricoltori, a prescindere dalla fascia di reddito. Questa tassa – annota Tonio Palmisano – è stata eliminata per “bilanciare” l’assenza di misure di sostegno in caso di calamità atmosferiche. Reintrodurla oggi, in un periodo in cui la tropicalizzazione del clima mette a dura prova il raccolto di un’intera annata, non ha senso».

A seguire, si chiede di aggiustare il tiro della “legge sul caporalato”: «Paradossalmente, piuttosto che perseguire il “caporale”, questa legge penalizza l’azienda che lo ha assunto, esponendola a conseguenze penali e amministrative pesanti».

Quanto al problema dei sussidi sul gasolio agricolo, «si è disposti a pagare il carburante per i nostri mezzi al prezzo nazionale, a patto che si possa usufruire di un credito d’imposta pari al 50%, come accade nella maggior parte dei comparti produttivi».

Altro punto critico riguarda la «semplificazione delle assunzioni, ritornando al “libretto del lavoro”, che aveva validità di 4 anni ed era rilasciato direttamente dall’Ufficio di Collocamento del Comune di residenza. Inoltre, andrebbe rivisto il sistema delle visite mediche che devono essere eseguite per legge prima dell’ingaggio: parliamo di accertamenti generici che ogni anno pesano sulle tasche del datore di lavoro e che, tra l’altro, difficilmente possono stabilire la reale idoneità dell’operaio. Per questo, chiediamo che siano sostituite da un “libretto della salute” gestito dal medico di base che, conoscendo la storia clinica del lavoratore, può indicare a quali mansioni sia idoneo».

Chiude la lista la necessità di «rivedere il sistema burocratico sindacale: le associazioni di categoria detengono l’esclusiva della gestione di alcune pratiche agevolative, obbligando di fatto le imprese a tesserarsi».

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