“Trònere di Turi”: tutto ebbe inizio nella cantina di Felicetto
di Stefano de Carolis
Qualche mese fa alcuni macellai e ristoratori turesi mi hanno invitato ad occuparmi della valorizzazione e tutela di un altro piatto tipico della nostra tradizione, nato a metà del ’900: le Trònere di Turi.
Con entusiasmo e senso di responsabilità, ho intrapreso questo viaggio culinario e culturale, consapevole che questa antica ricetta rappresenta non solo una prelibatezza gastronomica ma anche un pezzo di memoria della storia comune, un’eredità che merita di essere tramandata e celebrata.
Un progetto condiviso
Oggi, sono ben 19 le attività del territorio che preparano e commercializzano le “Trònere di Turi”. Il primo passo necessario, quindi, è stato creare un gruppo coeso, che unisse commercianti, macellai e ristoratori turesi in una visione d’insieme.
Dopo aver parlato con tutti gli addetti ai lavori, all’unisono, abbiamo concordato di uniformare gli ingredienti e la preparazione, lasciando inalterate le peculiarità del piatto, sempre nel rispetto dell’antica ricetta tramandata sino ad oggi.
Nel mese di settembre presso i competenti uffici della Regione Puglia, in qualità di presidente dell’associazione “La Faldacchea di Turi”, ho presentato un dettagliato progetto di valorizzazione, con il fine di ottenere il “giusto” riconoscimento quale piatto tipico e tradizionale di Turi, con la denominazione “Trònere di Turi”.
Le radici storiche delle Trònere
Come tutti i piatti tradizionali che caratterizzano un territorio ed un determinato luogo, anche le nostre Trònere hanno una propria storia.
Nella circostanza, senza lasciare nulla al caso, ho raccolto informazioni riguardanti il piatto, acquisendo preziose testimonianze di persone anziane che, oltre ad aver vissuto esperienze di vita, sono a conoscenza di fatti e particolari legati alla nascita di questa antica leccornia tutta turese.
Le prime domande che mi sono posto sono state: quando, perché e dove è nata la tradizione. Per fortuna le risposte non sono tardate ad arrivare.
“Trònere di Turi”: storia, tradizione e valorizzazione di un piatto unico
Sul finire degli anni ’40, Felice Cirillo (classe 1914), originario di Terlizzi, e sua moglie Laura Panzone di Turi, ereditano dalla zia Laura Martinelli, cantiniera turese sin dagli inizi del 900, l’antica cantina/osteria posta in via Chiesa. Da lì a poco per i turesi l’esercizio pubblico diverrà la rinomata “cantina da Felicetto”.
Terminato il secondo conflitto mondiale, nel 1946, Felicetto, padre di cinque figli, dopo un breve periodo in cui svolge il lavoro di guardia campestre, inizia l’attività di oste e cantiniere: nell’antico locale del borgo antico di Turi, con sua moglie Laura, somministra vini e cibi della tradizione turese.
I coniugi Cirillo si specializzano nella preparazione di piatti semplici della tradizione gastronomica locale: pasta al sugo, timballi, legumi, brodo di carne, trippa e peperoni sott’aceto conservati nelle “capase” di terracotta.
Il piatto forte della casa è la succulenta e gustosa brasciola di carne equina e bovina, dal peso di 100 grammi. Gli involtini vengono cotti nei tegami di terracotta, chiamati in dialetto “u tiène” (tiano, dal greco tèganon, ossia grosso tegame in terracotta), immersi nel sugo di pomodoro con l’aggiunta di qualche cucchiaio di conserva locale, seccata al sole d’estate.
L’osteria di Felicetto era molto conosciuta a Turi e nei paesi limitrofi e veniva frequentata da numerosi avventori, anche clienti fissi giornalieri.
Un bel giorno Felicetto, quasi per caso, inizia a preparare grossi involtini di carne, molto più corposi rispetto alle classiche brasciole al sugo.
Le fette di carne equina/bovina, dal peso di 250-300 grammi, dopo essere state farcite con ventresca fresca e provolone piccante, venivano cotte lentamente in grossi tegami di terracotta, immerse in abbondante cipolla bianca e pomodori regina “appesi”.
Il racconto di Vincenzo “Enzino” Cirillo
«Ricordo con piacere quando giovanissimo aiutavo i miei genitori nell’osteria di famiglia. La cantina/osteria era ubicata in via Chiesa vicino la pescheria di Palmisano “la nennìlle”. Per la conservazione degli alimenti usavamo una grande ghiacciaia alimentata con le barre di ghiaccio. Il vino dispensato ai clienti era contenuto in alcune cisterne.
Un giorno, quasi per caso, mio padre Felice, iniziò a preparare grossi involtini di carne equina e bovina, cotti senza passata di pomodoro. Le fette di carne, che tagliavo anche io, avevano il peso di 250 grammi.
Ricordo altresì che, durante l’estate, con i miei fratelli preparavano il passato di pomodoro, circa 18 quintali di pomodori ogni anno. Sempre nei mesi estivi preparavamo anche la classica conserva di pomodoro seccata al sole.
L’osteria era molto frequentata, avevamo circa trenta posti a sedere. Mia madre Laura preparava piatti semplici ma molto gustosi. La cottura dei cibi avveniva nel forno della cantina e nel vicino forno comunale.
I tegami di terracotta contenevano fino a 40 trònere. Il costo del tegame si aggirava intorno alle 800 lire.
La carne necessaria per soddisfare le esigenze dell’osteria la acquistavamo da un macellaio di Terlizzi al prezzo di 200 lire al kg».
Pino Carenza: una curiosa testimonianza
A riguardo del motivo per cui si iniziò a produrre un involtino con fette di carne molto più spesse della comune brasciola, risulta interessante riportare una curiosa testimonianza riferita da Pino Carenza, veterinario di Turi, il quale racconta quello che gli diceva suo nonno Giuseppe, soprannominato Maccaiune.
«Al termine del secondo dopoguerra, alcuni giovani braccianti di Turi, ingaggiati da Pietro Catucci, con traini, mule, picconi e zappe, andavano a lavorare in alcuni terreni della provincia di Taranto. In particolare gli operai stavano effettuando lavori di spietramento per impiantare nuovi vigneti di Primitivo.
Un giorno accadde che nel corso delle operazioni di carico delle pietre, una mula ebbe la peggio a causa di un grave incidente ad una zampa. Pietro Catucci, datore di lavoro e proprietario dell’animale, vista la grave ferita decise di macellare la mula sul posto. La carne macellata venne trasportata a Turi per poterla vendere ai macellai turesi, ma questi volevano speculare sulla disgrazia, proponendo al proprietario un prezzo basso.
Fu così che Catucci decise di portarla presso l’osteria di Felicetto Cirillo per farci bistecche da regalare ai suoi giovani operai. Per più di dieci giorni mangiarono gratis carne equina preparata in succulente braciole, carne con le patate al forno e tante bistecche arrosto.
Stando a quanto raccontato da mio nonno, pare che, per consumare la carne dell’intero animale, Felicetto con sua moglie Laura, decise di preparare degli involti di carne più grandi rispetto alle classiche braciole al sugo. Fu così che, per caso, nacque una versione di braciole in bianco, senza sugo, ma con tanta cipolla, pomodori appesi, provolone piccante e peperoncino.
Da quel momento la storia delle gustose Trònere turesi non si è più fermata, sino ad arrivare ai giorni nostri».